di Mario Papadia
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Mario PapadiaPubblicato17 Novembre 2021
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APPUNTI E CRONACHE

A proposito di COP26

Siamo in un universo né banale né normale né evidente. La Terra è una piccola pattumiera cosmica divenuta in modo improbabile non soltanto un astro molto complesso, ma anche un giardino, il nostro giardino. La vita che ha prodotto, di cui gode, di cui noi godiamo, non sorge da alcuna necessità a priori. E forse unica nel cosmo, è sola nel sistema solare, è fragile, rara, e preziosa perché rara e fragile.
Abbiamo appreso che tutto ciò che è non è potuto nascere che nel caos e nella turbolenza, e deve resistere a enormi forze di distruzione. Il cosmo si è organizzato disintegrandosi. Il Sole irradia alla temperatura della sua esplosione.

La vita si organizza alla temperatura della sua distruzione. L'uomo non si sarebbe forse sviluppato se non avesse dovuto rispondere a tante sfide mortali, dall'avanzata della savana sulla foresta tropicale fino alla glaciazione delle regioni temperate. L'avventura dell'ominizzazione si è compiuta attraverso la mancanza e la pena. Homo è figlio di Poros e di Penia. Tutto ciò che vive deve rigenerarsi incessantemente: il Sole, l'essere vivente, la biosfera, la società, la cultura, l'amore. E spesso la nostra sventura, è anche la nostra grazia e il nostro privilegio. Tutto ciò che è prezioso sulla Terra è fragile e raro. E così anche della nostra coscienza.

Eccoci dunque, minuscoli umani, sulla minuscola pellicola di vita che circonda il minuscolo pianeta perduto nel gigantesco universo (che forse è esso stesso minuscolo in un pluriverso proliferante). Ma, allo stesso tempo, questo pianeta è un mondo, la vita è un universo pullulante di miliardi di miliardi di individui, e ogni essere umano è un cosmo di sogni, di aspirazioni, di desideri. (Edgar Morin, Terra-Patria, Raffaello Cortina)

Sul possibile e il probabile

Molte delle cose che esistono a questo mondo, ad esempio la sconfinata biodiversità delle specie o il Mosè di Michelangelo, appartengono al mondo dei possibili ma non a quello dei probabili, anzi al mondo dell’improbabile. Nessuno, tre-quattro miliardi di anni or sono, osservando le informi e semplici creature senza volto che pullulavano sulla terra, avrebbe mai potuto ritenere probabile la nascita delle complesse creature che conosciamo e con cui conviviamo e di cui siamo parte.
Eppure noi tutti, attuali viventi, eravamo possibili nelle preistoriche e incoscienti nummuliti. Ma quanta esitazione prima, e tale esitazione si chiama tempo, caso, mutazione, selezione. Per oltre ottocentomila anni il genere Homo ha vagato in molteplici direzioni e tentativi, prima di giungere alla specie Sapiens, specie non eccelsa forse, ma certo più complessa e creativa delle precedenti. (Tito Speri, Tempi vagabondi, Casperia)

Era l'Italia del Seicento?

Dal Trecento al Seicento si configura il caso dell'Italia come quello di una geografia umana posta al centro di un mare epidemico, il Mediterraneo, o come quello di luogo elettivo di una «unificazione microbica del mondo» favorita, di volta in volta o tutt'insieme, dagli scambi dei traffici, dall'andare e venire degli eserciti, dalle penurie e fragilità concomitanti alle guerre. Quella italiana è una «società aperta»: aperta ai commerci, alle invasioni, alla libertà di ammalarsi. Uomini e cose, con i loro parassiti, fanno la parte dei vettori dei contagi; e la microbiologia, all'insaputa delle conoscenze mediche, fa il resto, con i suoi veleni e contravveleni, con una patogenicità giocata tra la virulenza degli agenti infettanti e la resistenza degli organismi infetti. Poi tutto, anche le epidemie, cambia volto. (Giorgio Cosmacini, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Laterza).
 

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